La bellezza di Saffo

Ovidio narra di Saffo, di una donna  dall’ aspetto sgradevole, impotente di fronte all’amore per  Faone e di un sentimento che mai avrebbe trovato pace se non con la morte. “Virtù non luce in disadorno ammanto”. Giacomo Leopardi accoglie la leggenda della poetessa greca che tronca la sua sofferenza, gettandosi da una rupe nel mare di Leucade. Il poeta recanatese si immedesima nel tormento di Saffo, nella crudeltà di una bruttezza che costringe al dolore a cui neanche la poesia può mettere fine. Ma la scultura in esame si allontana dalla donna cantata da Leopardi. Il suo volto irradia una bellezza gentile ed eterea, più vicino al racconto del greco Alceo che ce la restituisce come una donna bellissima, delicata, autrice di liriche ispirate dalle giovani fanciulle che educava sull’isola di Lesbo, colei che in età moderna è stata resa simbolo dell’amore unicamente al femminile. E già … il simbolo. Nella metà del XIX secolo la ricerca del vero spinse gli artisti fino alla rappresentazione della bruttezza, della sgraziata miseria, della cruda realtà strappata da ogni forma di idealizzazione estetica. La borghesia però necessitava di un linguaggio lontano dalla spietata denuncia sociale, una verità più consona alla Belle Époque di cui si fece protagonista. Fu così che in Francia si promosse l’emulazione di una classicità non più nostalgica o celebrativa ma quale strumento ideale per percepire l’autenticità del reale.  Il simbolismo diventa indagine interiore per comprendere appieno il mistero della realtà, per coglierne l’essenza che l’occhio umano non percepisce senza l’aiuto dell’anima. Un’arte che si rivolge soprattutto al pubblico che ritrae, intellettualizzata, colta, che predilige temi letterari, che si distacca dal realismo sociale. Ed eccola qui, la Saffo di Luigi De Luca, l’unica opera che riuscì a soddisfarlo perché fedele all’idea che si era prefissato di raggiungere.

Esistono diverse versioni di questo rilievo muliebre, presentato per la prima volta in bronzo alla mostra dell’arte dei fiori di Firenze nel 1896-97. Una versione in marmo è giunta addirittura al Museo dell’Avana, senza dimenticare l’esemplare per la Galleria nazionale d’Arte Moderna di Roma (oggi a Palermo) e quello esposto qualche anno fa alla mostra Tesori nascosti di Napoli, della Fondazione Cavallini Sgarbi. Il profilo elegante, dalla dolcezza vereconda, è finemente incorniciato dalla sinuosità dei capelli che si assottigliano nel ruvido marmo, simulando le increspature delle onde del mare. Le corde della lira sollevano delicatamente il capo di Saffo enfatizzando la frontalità della visione. Lo strazio del collo contratto si distende nel languore del volto abbandonato all’oblio, le labbra dischiuse sembrano esalare gli ultimi versi di una poesia mortale. “Spande il tuo labbro[…] arcano è tutto, fuor che il nostro dolor”.  

Inevitabile è l’eco della pittura preraffaellita, della Ofelia dell’inglese John Everett Millais, ma di ispirazione per la Testa di Orfeo del nisseno Michele Tripisciano, dove i flutti marini lievemente policromi, caricano l’effetto lirico del volto sopito. La morte del leggendario cantore greco, figlio di Calliope,  è riproposta nel Memento Mori del napoletano Giovan Battista Amendola, oggi al Museo di San Martino di Napoli, dove il modellato leggero si fonde nell’effetto indefinito delle onde del mare, opera sicuramente ispirata dal celebre Orfeo dipinto dal simbolista francese Gustave Moreau, oggi al Museé d’Orsay.

Ofelia, John Everett Millais
Orfeo, Michele Tripisciano,
Memento Mori. la testa e la lira di Orfeo, Giovan Battista Amendola

Nell’Italia post unitaria la scena artistica era divisa tra la realizzazione di sculture in piccolo formato, per un uso domestico e decorativo, e monumenti celebrativi che omaggiavano per lo più gli eroi del risorgimento. Luigi De Luca, formatosi alla scuola del verista Stanislao Lista, giunto a Roma si cimentò nello studio della scultura dei più grandi autori, mostrando una spiccata ammirazione per il Mosè di Michelangelo.

Di chiara ispirazione berniniana è il suo Sogno claustrale, opera in gesso (oggi a Capodimonte), in cui la torsione dell’estasi si trattiene nella prigione di una sedia.

Sogno claustrale, Luigi de Luca

Divenuto professore all’Istituto di Belle Arti di Urbino e poi di Napoli, seppe farsi strada nel dualismo tra un gusto privato e collezionistico e una richiesta ufficiale di tipo monumentale mostrandosi anche un abile ritrattista. Suo è il busto di Michele Martuscelli, figlio di un precettore degli ultimi re  borbonici, che dedicò la sua vita all’insegnamento delle categorie più disagiate, in particolar modo i ciechi, ottenendo che anche i bambini non vedenti venissero accettati nelle scuole pubbliche italiane. Il busto è esposto ai lati di piazza Dante, su una base decorata a bassorilievo prospiciente alla Parrocchia dei Santi Domenico Soriano e Nunzio Sulprizio.

Busto di Michele Martuscielli, Luigi De Luca

A piazza Bovio, il monumentale palazzo della Borsa progettato da Alfonso Guerra è inquadrato all’esterno dalle due statue del Genio che domina la Forza, progettate da De Luca e fuse in bronzo dalla storica fonderia Chiurazzi.

Genio che domina la forza, Luigi De Luca

Non mancarono all’artista committenze religiose come le statue d’argento di Santa Rita e Santa Geltrude per la Cappella del Tesoro di San Gennaro.

Santa Rita, Luigi De Luca
Santa Geltrude, Luigi De Luca

Ottantenne, Luigi De Luca si spense a Napoli nel 1938. Ma tra centinaia di capolavori, il suo ricordo resta ancora legato a quel volto di Saffo, a quel sospiro accennato e immortale.

Dott. Fabio Trosa